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La grande mostra su Beato Angelico a Firenze: ecco le cinque opere da non perdere

di Redazione

Fino al 25 gennaio 2026, Palazzo Strozzi e il Museo di San Marco ospitano l’attesa mostra dedicata alla pittura quattrocentesca di Beato Angelico, in dialogo con colleghi del calibro di Lorenzo Monaco, Masaccio, Filippo Lippi e di scultori come Lorenzo Ghiberti, Michelozzo e Luca della Robbia. Curata da Carl Brandon Strehlke, curatore emerito del Philadelphia Museum of Art, con Stefano Casciu, direttore regionale Musei nazionali Toscana, e Angelo Tartuferi, già direttore del Museo di San Marco, la mostra segna il “ritorno” dell’artista in città a settant’anni di distanza dalla monografica del 1955. Se state organizzando la vostra visita, vi suggeriamo cinque opere da non lasciarvi sfuggire, attraverso le parole degli esperti racchiuse nel catalogo edito da Marsilio Arte

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Pala della compagnia di San Francesco in Santa Croce (Trittico francescano), 1428-1429

La pala e il solo incarico che Beato Angelico ricevette da una confraternita legata all’ordine mendicante dei francescani, “rivale” storico dei domenicani. Nel 1991 John Henderson e Paul Joannides hanno infatti dimostrato che nel 1429 la compagnia di San Francesco, detta “del Martello”, pagò un certo «Fra Guido» per realizzare una pala per la loro cappella, situata nel convento francescano di Santa Croce a Firenze (Henderson, Joannides 1991). I due studiosi hanno inoltre collegato il pagamento a un trittico il cui registro principale e molto danneggiato, condizione che può spiegare perché sia stato in gran parte dimenticato dalla storiografia. Tale oblio ha riguardato in particolare i pannelli laterali, lasciati a lungo in deposito presso la certosa del Galluzzo, facendo guadagnare all’opera il nome improprio di Trittico della certosa.
Nonostante lo stato di conservazione, l’importanza di questa creazione nella carriera di Beato Angelico non è da sottovalutare: si tratta infatti di un tassello fondamentale nell’elaborazione delle pale eseguite dal pittore domenicano. Rispetto alle pale di Fiesole e di San Pietro Martire, le proporzioni sono ancora più monumentali. La Madonna, al centro, e volutamente più grande dei santi che la affiancano, trattati quasi come statue.
Colpisce la preziosità dei materiali utilizzati: allo sfondo dorato, al blu lapislazzuli del mantello della Vergine e al broccato alle sue spalle si aggiunge la croce in argento sorretta da Giovanni Battista. Beato Angelico impiegò una cura da miniaturista nella resa della peluria, in particolare nella barba di san Girolamo o nella lunga chioma e nei peli che ricoprono il corpo nudo del santo eremita Onofrio. Questa attenzione al dettaglio si estende alle scene della parte superiore – che raffigurano un’Annunciazione ai lati di una Trinità –, in particolare nel mantello dorato di Dio Padre, nell’anello al dito della Vergine, segno della sua fedeltà a Dio, o nella semplice sedia di paglia, così realistica, collocata alle sue spalle.
Lo sfarzo del registro principale e delle cuspidi del trittico può essere nuovamente apprezzato dopo il recente restauro eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze in vista di questa mostra, operazione che non ha peraltro nascosto i molti danni subiti nel tempo dalla pala. All’inizio del XVII secolo la cappella della compagnia di San Francesco fu infatti spostata nei sotterranei del convento, dove si ritiene sia stata trasferita anche la pala, ancora provvista della predella. Nel 1785 la confraternita fu soppressa e la predella andò verosimilmente dispersa, in quel momento o in concomitanza con la successiva soppressione del convento di Santa Croce, nel 1810. I pannelli principali, restaurati abusivamente con la soda, furono devoluti alla Galleria dell’Accademia, per poi essere depositati alla certosa del Galluzzo; solo la Madonna, meno danneggiata, sarebbe stata presto trasferita al Museo di San Marco.
La predella è costituita da cinque pannelli che raffigurano storie di san Francesco d’Assisi. Tre di essi si trovano alla Gemäldegalerie di Berlino: l’Incontro tra i santi Domenico e Francesco d’Assisi, l’Apparizione di san Francesco d’Assisi ad Arles (entrambi acquistati nel 1823 a Roma, dove li possedeva Jakob Salomon Bartholdy) e i Funerali e accertamento delle stimmate di san Francesco d’Assisi (dono del 1909 del direttore generale dei Musei berlinesi Wilhelm Bode, che aveva ricevuto il dipinto come onorario per un catalogo dei bronzi di John Pierpont Morgan: si veda Bode 1930, ed. 1997, I, pp. 370-371). Un altro frammento, che rappresenta la Prova del fuoco di san Francesco d’Assisi davanti al sultano, e al Lindenau-Museum di Altenburg (acquisito nel 1845 a Roma), mentre l’ultimo pannello, San Francesco d’Assisi riceve le stimmate, si trova ai Musei Vaticani almeno dal 1837. È merito di Miklós Boskovits (1976b, pp. 36-38) che la predella sia stata ricollegata alla pala.
Rispetto al registro principale, dalla composizione canonica e quindi un po’ irrigidita per via dello sfondo dorato, nella predella Beato Angelico dà libero corso alla sua fantasia, rappresentando un paesaggio di freschezza inedita (nell’Incontro tra Domenico e Francesco), dei notturni tanto sorprendenti quanto mistici (nella scena delle Stimmate e nell’Apparizione ad Arles) o, nella Prova del fuoco, una composizione che ritroveremo nelle sue pale unificate, a partire da quella di San Marco. Singolarmente è dunque in una zona marginale dell’opera, ovvero la predella, che il pittore si mostra più audace, stabilendo così le basi delle sue creazioni future.
La sequenza originale della predella è stata lungamente dibattuta. Per le sue dimensioni, doppie rispetto agli altri elementi, i Funerali e accertamento delle stimmate di san Francesco d’Assisi ne occupavano certamente la parte centrale. Le analisi radiografiche condotte dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze in vista di questa mostra (in stretta collaborazione con le tre istituzioni proprietarie dei frammenti di predella) hanno dimostrato che l’Incontro tra i santi Domenico e Francesco d’Assisi era collocato all’estrema sinistra, seguito da San Francesco d’Assisi riceve le stimmate; a destra dei Funerali e accertamento delle stimmate si trovava prima l’Apparizione di san Francesco d’Assisi ad Arles, poi la Prova del fuoco di san Francesco d’Assisi davanti al sultano. L’ordine delle scene non sarebbe quindi per niente cronologico, ma dipenderebbe più da un desiderio di equilibrio compositivo tra le scene diurne e quelle notturne.

Neville Rowley

Beato Angelico, Pala della compagnia di San Francesco in Santa Croce (Trittico francescano), San Girolamo e san Giovanni Battista, con l’angelo annunciante; Madonna col Bambino in trono, con la Trinità; San Francesco d’Assisi e sant’Onofrio, con la Vergine annunciata, 1428-1429. Tempera, oro e argento su tavola. Madonna cm 188,7 × 81,8 × 3,5 (9), San Francesco / Onofrio cm 170,4 × 76,5 × 3,5 (9), San Girolamo / Giovanni Battista cm 170 × 76,7 × 3,5 (9,3). Firenze, Museo di San Marco, inv. 1890, n. 8496 (centrale). Photo credits: Su concessione del Ministero della Cultura – Opificio delle Pietre Dure

Pala Strozzi, 1421-1424 circa; 1430-1432 circa

La Deposizione di Beato Angelico costituisce il pannello centrale di una pala d’altare commissionata da Palla Strozzi per la sagrestia della sua famiglia in Santa Trinita a Firenze. Fu iniziata da Lorenzo Monaco e probabilmente lasciata incompiuta alla morte dell’artista, avvenuta intorno al 1424. Tra le parti dipinte da Lorenzo figurano le cuspidi e la predella (Pudelko 1939, pp. 78-79). I soggetti raffigurati nelle cuspidi suggeriscono che in origine il tema principale della pala avrebbe dovuto essere una Passione, al posto di una tradizionale Madonna col Bambino e santi (Padoa Rizzo 1987c). Angelico fu probabilmente scelto per rielaborare la pala grazie allo stretto rapporto già intrattenuto con Lorenzo (Kanter 2005b).
Onofrio (Nofri) di Palla di messer Jacopo Strozzi (1345-1418), padre di Palla, aveva disposto un lascito di duemila fiorini per l’edificazione e l’ufficiatura di una cappella da dedicare ai santi Onofrio e Nicola di Bari, onomastici rispettivamente dello stesso Nofri e del defunto figlio Niccolò (m. 1411). Degno di nota è il fatto che entrambi i dedicatari sono assenti dall’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, commissionata da Palla per la seconda cappella della sagrestia. Nella Deposizione, Palla è stato identificato con il personaggio che tiene in mano i chiodi e la corona di spine. La figura inginocchiata potrebbe rappresentare il figlio maggiore Lorenzo, salito alla ribalta politica proprio negli anni in cui Angelico ultimava la pala (Strehlke 2005b, pp. 49-50; Strehlke 2008, pp. 172-173), oppure il beato Alessio Strozzi (m. 1383), venerato avo della famiglia (Spike 1996, p. 106). La scena si dispiega davanti a una Gerusalemme distante, la cui cinta di mura turrite richiama quella di Firenze. Uomini e donne dolenti sono divisi in due gruppi ai piedi della croce. Le donne, fra le quali si riconoscono figure chiave del Vangelo come la Madonna e Maria Maddalena, sono raffigurate in diverse espressioni di dolore e preghiera. Accanto a Palla, uomini vestiti secondo la moda fiorentina dell’epoca contemplano gli strumenti della Passione, riportando la narrazione al presente e creando così una varietà di testimoni del sacrificio di Cristo. Dettagli naturalistici, come i segni delle piaghe sul corpo di Cristo, le venature del legno della croce, i rivoli di sangue e la vegetazione accuratamente riprodotta, invitano l’osservatore a un contatto intimo con questa scena sacra.
Il dipinto fu installato nel luglio del 1432, quando un compenso in vino venne corrisposto al legnaiolo Manno di Benincasa per «rizzare» la pala d’altare della sagrestia e al convento domenicano di Angelico a Fiesole (Jones 1984, pp. 67-68). In un catalogo di oggetti d’arte nelle chiese fiorentine compilato ai primi del XVII secolo (Catalogo delle chiese 1637 circa) la Deposizione risultava collocata sopra l’altare principale del lato nord-est. Tuttavia, l’opera venne trasferita a un’altra parete della sagrestia prima del 1755 (Richa 1754-1762, III, 1755, p. 157). Con la soppressione della chiesa nel 1810, la pala d’altare fu rimossa e restaurata, ma senza la sua predella (Processi verbali 1810; Affari diversi 1810-1819, ins. 155, n. 2). Dal Sepoltuario di Antonio Maria Biscioni (1720 circa) si evince tuttavia che la Deposizione, ornata dagli stemmi degli Strozzi, era collocata sopra la porta che dalla sagrestia conduceva al dormitorio. Probabilmente gli stemmi si trovavano su una parte della cornice ora perduta, forse la predella, separata dal pannello principale quando la pala fu rimossa, poiché non ne resta alcuna traccia.
La predella, un tempo costituita da un’unica tavola, ha perso la sua incorniciatura del XV secolo, mentre la cornice del resto dell’opera è originale, fatta eccezione per la decorazione ottocentesca scolpita a fogliame sotto le cuspidi e per i capitelli corinzi che sormontano i pilastri quattrocenteschi.
Alcuni dettagli della Deposizione permettono di ricontestualizzare l’opera all’interno della sagrestia, che non serviva solo come cappella sepolcrale per Nofri Strozzi, ma anche come coro notturno per la congregazione vallombrosana della chiesa. Nel 1420 Palla aveva commissionato al legnaiolo Arduino da Baiso la realizzazione, su disegno di Manno di Benincasa, degli stalli del coro (Poggi 1903, pp. 16-17). Il legame tra la funzione sepolcrale e il dipinto à rafforzato dalle iscrizioni originarie della cornice: «Lo piangeranno come si piange il primogenito [Zc 12,10] / Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa [Sal 87,5/88,4-5] / Perisce il giusto, nessuno ci bada [Is 57,1]». Il primo passo va inteso come un riferimento diretto ai lutti prematuri che colpirono la famiglia Strozzi, comprese la morte di Niccolò di Nofri e quella successiva del figlio di Palla, Bartolomeo, sepolto nella cripta della sagrestia nel luglio 1426. Il testamento di Palla del 1447 specificava inoltre che egli stesso doveva essere tumulato lì.
La cripta era accessibile tramite una scala di diciotto gradini (Jones 1984, pp. 61, 92), e il fatto che le due scale nella Deposizione abbiano, sommate, quello stesso numero di pioli potrebbe non essere una coincidenza.
Come ha osservato per prima Diane Cole Ahl, i passi delle Scritture citati nelle iscrizioni provengono dal mattutino e dalle laudi del sabato santo (Ahl 1977a, I, p. 220), cantati nel coro notturno dei monaci davanti alla pala d’altare. La cronaca della chiesa dell’abate Benigno Davanzati riferisce che il venerdì santo la cerimonia dell’adorazione della croce si svolgeva nella sagrestia (Davanzati 1740). Nel rito, una croce veniva svelata gradualmente mentre l’abate vallombrosano, scalzo, si prostrava tre volte davanti a essa, la baciava e recitava una preghiera (Baroffio 2013, pp. 204-205). Oltre a ciò, sempre in occasione del venerdì santo, un frammento della Vera Croce appartenente alla famiglia Ardinghelli e conservato nella sagrestia veniva esposto affinché l’abate, gli Ardinghelli e i membri della congregazione potessero baciarlo (Ricordanze 1579-1594). Un’allusione a tali pratiche è presente anche nella pala d’altare, e precisamente nella figura di san Giovanni scalzo che sorregge il corpo di Cristo, nel personaggio inginocchiato davanti alla croce e in Maria Maddalena che bacia i piedi di Cristo. La sintesi pittorica dei gesti fondamentali della cerimonia suggerisce che la pala fosse stata concepita appositamente per la sagrestia, affinché facesse da cornice alle liturgie pasquali pur mantenendo chiari richiami ai suoi committenti, la famiglia Strozzi.

Michela Young

Lorenzo Monaco (Piero di Giovanni, Don Lorenzo; Siena, 1370 circa – Firenze, 1424) e Beato Angelico (Guido di Piero; Fra Giovanni da Fiesole; Vicchio di Mugello, 1395 circa – Roma, 1455), Pala Strozzi, 1421-1424 circa; 1430-1432 circa. Tempera e oro su tavola, cm 277 × 283 (totale). Firenze, Museo di San Marco, inv. 1890, n. 8509. Photo credits: Su concessione del Ministero della Cultura – Direzione regionale Musei nazionali Toscana – Museo di San Marco

Testa sagomata di san Francesco d’Assisi, 1427-1430 circa

Il dipinto, su tavole sagomate, raffigura Cristo crocifisso tra i santi Nicola di Bari e Francesco d’Assisi, inginocchiati presso il Golgota. L’iscrizione «JESUS NAZARENUS REX JUDEORUM» è riportata anche in greco ed ebraico.
L’opera fu commissionata dalla compagnia di fanciulli di San Niccolò di Bari, detta “del Ceppo”, fondata nel 1417, una delle prime quattro societates puerorum, adulescentium et iuvenum che a Firenze furono dedicate all’insegnamento della dottrina cristiana e alla formazione spirituale dei membri (si veda Taddei 2001).
La Crocifissione fu eseguita circa un decennio dopo la fondazione della confraternita, che aveva costruito la propria sede presso la chiesa e ospedale dei Santi Filippo e Jacopo della Torricella, non lontano da Santa Croce. L’opera seguì gli spostamenti del sodalizio, che nel 1530 si trasferì presso la compagnia del Tempio e, il 23 ottobre 1564, nell’attuale oratorio di via della Badessa (oggi via de’ Pandolfini). Nel 1568, per riparare i danni dell’alluvione del 1557, il pittore Giovanbattista del Verrocchio fu pagato «per raconc[i]are el crocifiso». Nel 1594 Stefano Orlandi restaurò il dipinto per collocarlo all’altare maggiore (Sebregondi 1985, pp. 30, 32, 47), come attesta un ex voto che ne ricorda la posizione e la fama taumaturgica. Successivamente, nel 1610, venne sostituito da una tela di Francesco Curradi e spostato in sagrestia. Per adattarlo allo spazio più angusto, il legnaiolo Vincenzo Sassi fu incaricato di «tagliare dua santi, e restringerli» (Sebregondi 1985, pp. 33, 47), modificando cosi i rapporti proporzionali delle figure.
La Crocifissione fu trasferita al Museo di San Marco nel 1955 per essere restaurata ed esposta alla mostra angelichiana (Firenze 1955b). Tornata al Ceppo, subì nuovi danni durante l’alluvione del 1966. Un intervento al supporto ha dato respiro alle figure, prima molto compresse (Firenze 1972). Trasferita di nuovo a San Marco, e rimasta nella Sala del Lavabo fino al 2007, quando le condizioni di sicurezza ne hanno permesso il ritorno al Ceppo.
Un ulteriore restauro, eseguito all’Opificio delle Pietre Dure tra il 2016 e il 2018, ha portato a nuovi studi e alla revisione dei rapporti spaziali tra le figure. La ricostruzione si è basata sulla “divina proportione”, con la croce inscritta in un rettangolo aureo, il cui centro coincide con l’ombelico di Cristo (Dinardo, Toso 2018).
Nel 1955 Umberto Baldini identificò un San Francesco d’Assisi conservato al Philadelphia Museum of Art come parte originaria dell’opera. Al Ceppo era stata sostituita da una copia, comprendente la testa, il busto fino alla vita, il braccio sinistro e meta del destro, realizzata a olio su ricalco dell’originale. Non è noto quando siano avvenute la sostituzione e la trasformazione in quadro del frammento, dotandolo di uno sfondo e completando il braccio destro, pur modificandone la parte superiore originale affinché le due mani si giungessero in preghiera. Nel 1909 Bernard Berenson raccomandò a John G. Johnson l’acquisto dell’opera, che il collezionista effettuò due anni dopo.
Nel 1992 il San Francesco di Filadelfia è stato riportato alla sagomatura originale (Strehlke 1993, pp. 9, 12; Strehlke 2018c; C.B. Strehlke, in Madrid 2019). La Crocifissione, databile al 1427-1430 circa, mostra l’influsso di Masaccio nelle figure dei santi, nell’illuminazione e nell’anatomia del Cristo, e di Ghiberti nella testa del San Francesco, che richiama il Santo Stefano di Orsanmichele (C.B. Strehlke, in Madrid 2019, p. 190).
La mostra attuale segna la prima ricomposizione in Italia delle due parti dell’opera.

Ludovica Sebregondi

Beato Angelico, Figura sagomata di san Francesco d’Assisi (dalla Crocifissione sagomata tra i santi Nicola di Bari e Francesco d’Assisi di San Niccolò del Ceppo), 1427-1430 circa. Tempera e oro su tavola, cm 70,5 × 48,9. Filadelfia, Philadelphia Museum of Art, John G. Johnson Collection, inv. 1917, cat. 14. Photo credits: Courtesy of the Philadelphia Museum of Art

Madonna dell’Umiltà e cinque angeli, 1425 circa

Così come nel secondo verso del canto XXXIII del Paradiso Dante definisce Maria «umile e alta più che creatura», Beato Angelico la raffigura seduta in terra (humus) come esempio di umiltà, che è alla base di tutte le virtù cristiane, esaltandone al tempo stesso la regalità con un drappo onorifico. Tre angeli sorreggono il telo mentre occhieggiano la Vergine e il Bambino, che le si stringe alla guancia. In primo piano, due altri angeli osservano la scena dal basso; uno ha le dita poggiate sui tasti di un organetto, l’altro tiene un plettro sospeso al di sopra delle corde di un liuto. Si tratta di un momento di silenzio che precede l’intonazione e l’accompagnamento dell’Ave Maria inciso nell’aureola della Madonna, che nella sua insolita grandezza richiama i vassoi d’ottone rotondi in voga nell’Italia dell’epoca (Auld 2004).
Un esemplare di questi, prodotto nel XIV secolo per un sultano yemenita e oggi conservato a New York (The Metropolitan Museum of Art, inv. 91.1.605), presenta anch’esso lungo il bordo un’iscrizione finemente ornata, analogamente all’aureola della Vergine. Il vaso di Maria rassomiglia a una caraffa del XIV secolo, egiziana o forse siriana, esposta nel medesimo museo (inv. 91.1.571). Tali riferimenti collocano la Vergine all’interno di una rappresentazione idealizzata della Terra Santa (Mack 2002, pp. 139-147). Nel vaso, tra le rose spicca un giglio, il «lilium inter spinas» del Cantico dei cantici (2,2) al quale la Vergine è assimilata. Il Bambino le porge il giglio di puro bianco con cui si identifica lo sposo del Cantico dei cantici (2,1), poiché in questa scena, a un tempo intima e regale, egli è a tutti gli effetti lo sposo divino di sua madre.
Il dipinto costituisce uno dei primi esperimenti angelichiani sul tema. Le proporzioni corte e arrotondate dei personaggi hanno indotto a datare l’opera alla metà degli anni Venti del Quattrocento (L.B. Kanter, in New York 2005-2006), mentre la rigorosa frontalità di Maria e la giocosità delle figure angeliche rappresentano una risposta diretta di Angelico alla Sant’Anna Metterza di Masaccio, risalente al 1424-1425 circa (Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 8386).
Le ali degli angeli e la croce nell’aureola di Cristo, rosse le une e l’altra, sono poste in risalto da dischi dorati, un possibile rimando allo scudo rosso seminato di bisanti d’oro dell’Arte del Cambio, la corporazione dei banchieri fiorentini (C.B. Strehlke, in Madrid 2019, p. 154), che rappresenterebbe quindi la committenza di questa e altre importanti opere d’arte destinate alla sua sede principale e alle istituzioni a essa connesse. L’Incoronazione della Vergine di Jacopo di Cione (Firenze, Galleria dell’Accademia, inv. 1890, n. 456) abbelliva la sede di piazza della Signoria, mentre la statua del santo partono Matteo, opera di Lorenzo Ghiberti, ornava una delle nicchie esterne della chiesa di Orsanmichele. Nel 1403 l’Arte trasferì il Trittico di san Matteo di Andrea di Cione (Orcagna; Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 3163) dal suo pilastro all’interno della chiesa all’ospedale di San Matteo, un istituto della cui sovrintendenza la corporazione era responsabile (Artusi, Patruno 2000, pp. 247-256; Henderson 2006, pp. 138-140). Alla loro sede centrale i banchieri avevano invece destinato l’Incoronazione di Jacopo di Cione.
Il dipinto di Angelico potrebbe essere stato una delle Madonne inserite in tabernacoli elencate in un inventario dell’ospedale di San Marco redatto nel 1454 (si veda p. 243), cosi come la Madonna dell’Umiltà conservata a Parma (cat. 6.1) sembrerebbe provenire da un altro ospedale fiorentino. Non va tuttavia escluso che l’Arte del Cambio tenesse l’opera nella propria sede, così come la corporazione dei lavoratori del lino custodiva l’omonimo tabernacolo angelichiano di dimensioni assai maggiori nella propria residenza. Il 1781 vide la soppressione dell’Arte del Cambio, mentre quella dell’ospedale di San Matteo fu decretata nel 1784. Il dipinto fu portato in Inghilterra intorno al 1816 e successivamente la principessa Carlotta del Galles lo ricevette in dono per le sue nozze dal padre, il principe reggente d’Inghilterra e futuro re Giorgio IV.

Machtelt Brüggen Israëls

Beato Angelico, Madonna dell’Umiltà e cinque angeli, 1425 circa. Tempera e oro su tavola, cm 98,6 × 49,2. Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya, inv. 7 (1986.10) (prestito a lungo termine dalla Collezione Thyssen-Bornemisza, Madrid). Photo credits: © Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid

Annunciazione di Montecarlo, 1432-1435 circa

Delle tre pale dell’Annunciazione superstiti di Angelico, quella di Montecarlo è la più ambiziosa dal punto di vista spaziale. Qui l’artista sfruttò la struttura del supporto, composto da due tavole verticali centinate, per tentare sperimentazioni illusionistiche.
Angelico ha raffigurato infatti l’intradosso degli archi dorati della cornice e ha dipinto un capitello e una base intorno all’elemento verticale, come se fosse una colonna di un’arcata doppia analoga a quella da cui entra Gabriele. Integrando così cornice interna (quella esterna è novecentesca) e spazio pittorico, fece del quarto lato della loggia della Vergine un’apertura per assistere all’Incarnazione.
L’ambientazione architettonica è stata modificata in corso d’opera. Incisioni visibili a occhio nudo rivelano che le pareti vennero concepite con archi, che avrebbero uniformato lo spazio come nella Pala dell’Annunciazione di Cortona. Angelico li sostituì con specchiature di marmo vaporosamente colorate, forse per dare un senso di maggiore variazione, o varietas, una qualità molto apprezzata nel Quattrocento in ogni forma d’arte (Baxandall 1971, pp. 94-95).
Le storie della predella sono le stesse delle altre pale dell’Annunciazione del frate, ma le composizioni sono più simili alle scene di quella di Cortona. Nella pala di Montecarlo sono state dipinte da almeno un altro artista che, sotto la diretta supervisione del maestro, pare abbia contribuito anche alla scena principale.
I paesaggi colorati e morbidi e gli occhioni delle figure ricordano opere di Zanobi Strozzi, un collaboratore di Angelico e, fino al 1438, un suo vicino (Kanter 2005d).
Non c’è consenso sulla destinazione originaria della pala. Paul Joannides (1989, pp. 303-305) sostenne che i pentimenti e la carpenteria, composta da due tavole unite da traverse a tenone e mortasa e perciò creduta facilmente smontabile e trasportabile, permettessero di identificare l’opera con l’Annunciazione commissionata ad Angelico nel 1432 da Fra Francesco Landino di Firenze per la chiesa di Sant’Alessandro a Brescia, un dipinto di cui si è persa ogni traccia. Tuttavia, una cronaca del 1618 afferma che la pala per Brescia era effettivamente arrivata da Firenze (Giani 1618-1622, I, 1618, p. 146). Il tavolato dell’Annunciazione di Montecarlo, pur insolito, non implica che il dipinto dovesse essere spedito lontano. Lo stesso sistema si trova nella pala pressoché contemporanea di Filippo Lippi a San Lorenzo a Firenze raffigurante lo stesso soggetto. Più probabilmente il dipinto fu realizzato per la chiesa in cui si trovava fino al XX secolo: quella dei francescani osservanti a “Mons Carulus”, nei pressi dell’attuale San Giovanni Valdarno, dove prima del 1517 il domenicano Fra Mariano Fetti ricordò un’opera del frate pittore «devoto e angelico» (Orlandi 1964, p. 33 nota 4). Nel 1429 il patrizio fiorentino Carlo Ricasoli aveva donato il terreno ai francescani, nonostante le proteste dell’illustre umanista Poggio Bracciolini, che aveva possedimenti vicini. Sebbene sia ignota la data di consacrazione della chiesa (Amonaci 1997, p. 121), la stretta somiglianza della pala con i dipinti documentati di Angelico dei primi anni Trenta del Quattrocento suggerisce che quest’opera venne dipinta in quel torno d’anni.

Maximillian Hernandez

Beato Angelico e bottega, Annunciazione di Montecarlo, Annunciazione e Cacciata dal Paradiso terrestre; Isaia (pennacchio); Sposalizio della Vergine, Visitazione, Adorazione dei Magi, Presentazione di Gesù al tempio, Funerali della Vergine (predella), 1432-1435. Tempera e oro su tavola: cm 195 × 158 (tavola principale); cm 16 × 30 (ciascuno degli scomparti della predella). San Giovanni Valdarno, Museo della Basilica di Santa Maria delle Grazie. Photo credits: Foto Scala, Firenze

Testi tratti dal catalogo della mostra edito da Marsilio Arte, Venezia 2025

INFO
Beato Angelico
fino al 25 gennaio 2026
Palazzo Strozzi
Piazza Strozzi, Firenze
https://www.palazzostrozzi.org/
Museo di San Marco
Piazza San Marco 3, Firenze
https://museitoscana.cultura.gov.it/

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