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da MArte

Yan Pei-Ming, l’artista che parla con la pittura

di Arturo Galansino

In mostra a Palazzo Strozzi, Yan Pei-Ming affronta la Storia traducendola in pittura. Radicandosi nel presente eppure guardando senza timore al passato. Ad analizzare la sua poetica è Arturo Galansino, curatore dell’esposizione fiorentina

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«La peinture n’est pas une caresse»

 

«Dipingo con molti sentimenti personali. Quando si parla di sentimento nella pittura contemporanea si risulta sempre un po’ sospetti. Pare non si debba mai utilizzare l’emozione, il cuore, io faccio esattamente il contrario! La pittura mi parla, parla allo spettatore, parla del suo tempo. Voglio essere attore della mia epoca».
La mostra Yan Pei-Ming. Pittore di storie esplora le potenzialità della pittura, tecnica tradizionale per eccellenza, e la capacità di questo mezzo di poter parlare della nostra storia in maniera accessibile e diretta. Yan Pei-Ming è infatti pittore di Storia e di storie perché nella sua pittura si ritrovano immagini che hanno segnato il passato recente assieme alle invenzioni dei grandi maestri della storia dell’arte e al racconto intimo della propria vicenda personale ed esistenziale.
«Per me il soggetto stesso è la pittura».
In un dialogo continuo e condiviso tra Storia, storia delle immagini e autobiografia, nei quadri di Yan Pei-Ming i contenuti si riverberano, rispecchiandosi l’un l’altro in tempi e luoghi diversi, tra Oriente e Occidente. Una commistione spesso allusiva e misteriosa, come in Les Funérailles de Monna Lisa, una delle composizioni più famose dell’artista, dove la riproduzione in grande scala del più celebre ritratto al mondo, noto anche nella Cina della Rivoluzione culturale dove l’artista è cresciuto, viene inserita in un ampio paesaggio e affiancata al ritratto del padre del pittore e a un autoritratto, entrambi sul letto di morte.
«Il ritratto è una riflessione sul passare del tempo. In questo caso, Monna Lisa rappresenta una metafora del tempo nel suo infinito».
Yan Pei-Ming ci ripete spesso che «la pittura non è una carezza». Quest’affermazione esprime la consapevolezza della forza della sua arte, incarnandone lo stile dirompente, i soggetti affrontati drammatici e spesso disturbanti, e la pratica costante e quotidiana nello studio: un rapporto diretto con la pittura che diventa vitale, esistenziale e spesso catartico. Più a suo agio con i pennelli che con le teorie, l’artista ha sempre dipinto utilizzando la figurazione imparata in gioventù a Shanghai, nonostante all’epoca dei suoi esordi in Francia questa fosse tutt’altro che in voga, e riuscendo a farsi accettare anche dagli ambienti più concettuali della École nationale supérieure des beaux arts di Digione, dove arrivò come studente all’inizio degli anni ottanta.
Egli ama definirsi «pittore d’assalto» poiché quando dipinge attacca la tela con energia, con pennellate vigorose e ampie stese direttamente sul supporto, senza disegni preparatori, creando le figure con rapidità, grazie a pochi gesti sicuri e quasi rituali. I suoi lavori sono sovente di dimensioni monumentali e per poterli realizzare egli deve impiegare estensioni, impalcature o piattaforme aeree. In questi imponenti lavori le immagini rappresentate appaiono quasi astratte a distanza ravvicinata, macchie di colore intrecciate e sovrapposte che acquisiscono una forma definita solo da lontano.
«Per anni mi sono autocondannato a dipingere in bianco e nero. A un certo punto mi sono detto che la condanna era un po’ pesante… L’assenza di colore era inizialmente deliberata, per poter forgiare la mia personalità, per esistere».
Il suo stile riprende, facendola esplodere in formati giganteschi, la più illustre tradizione pittorica occidentale, traslandola verso una tavolozza quasi sempre bicolore. Inizialmente questa era esclusivamente nera e bianca, come le foto che da giovane vedeva sui giornali, per poi includere il rosso, colore del sangue e della vita e, in seguito, gradualmente, altri colori fino a giungere a effetti policromatici. Questa palette limitata contribuisce ad amplificare la forza espressiva dei quadri e, a detta dell’artista, evita il confronto con i grandi maestri del passato cui egli si ispira ma dai quali al contempo vuole differenziarsi profondamente. Proprio per questa ridotta gamma cromatica, il trattamento luministico della superficie pittorica, la resa delle luci e delle ombre esercitano una funzione sostanziale.
«Il mio lavoro è sempre orientato verso l’essere umano, l’uomo è al centro di ogni cosa, l’elemento fondamentale del mio lavoro. Se mi chiedessero di creare un dipinto astratto, non credo che ci riuscirei: io sono interessato agli esseri umani».
Sia quando guarda alla sua vicenda privata che quando affronta la grande pittura del passato o i fatti che hanno segnato la grande Storia, Yan Pei-Ming predilige soggetti crudi e legati alla morte, da cui è ossessionato e che esorcizza dipingendola, scegliendo di raffigurare il proprio funerale, di rappresentarsi giustiziato o crocifisso – come nel suo primo autoritratto a figura intera, il trittico Nom d’un chien! in cui il pittore si rappresenta crocifisso tre volte, interpretando sia Cristo che i ladroni –, o in vanitas fatte di teschi che riproducono la TAC del suo cranio.
In mostra la sua storia personale viene raccontata attraverso il trauma della perdita dei genitori, e anche da immagini desunte dalla sua gioventù a Shanghai, come dimostrano il ritratto della madre, il grande Buddha color ambra – presenza di una devozione resistente anche all’ateismo della Cina di Mao –, gli animali vermigli dell’oroscopo cinese, come il drago o la tigre, o la derivazione pop del Kung-fu di Bruce Lee.
All’immaginario cinese appartiene anche il grande Mao, icona distante e onnipresente nella giovinezza dell’artista. Il ritratto è stato al centro dell’universo di Yan Pei-Ming ben prima del suo arrivo in Europa e, nonostante fosse un genere considerato minore nella Cina di allora, sin da ragazzo l’artista si esercitava disegnando e dipingendo i ritratti dei propri familiari. Furono però proprio i suoi ritratti del “grande timoniere” a farlo conoscere inizialmente in Occidente, emancipandolo e al contempo legandolo individualmente e indissolubilmente a una storia collettiva in cui quella immagine era imprescindibile.
«Mao per me è una specie di laboratorio. Faccio tutte le mie prove, i miei esperimenti sui suoi ritratti».
Yan Pei-Ming affronta un volto arcinoto di cui ha sperimentato il culto della personalità, partendo perciò da una prospettiva molto diversa rispetto a quanto abbiano fatto artisti come Gerhard Richter o Andy Warhol. Qui il volto di Mao viene consapevolmente integrato nell’esistenza dell’artista, come un elemento che lega differenti momenti della sua vita in modo quasi contradditorio: un’immagine che, onnipresente in Cina e simbolo di controllo e mancanza di libertà di espressione, lo ha spinto a essere artista e a una nuova vita in Francia. «Non faccio troppa distinzione tra Mao e mio padre […]. In Cina ci è stato sempre detto che Mao era più importante di nostro padre. Io non ero d’accordo […]. Evidentemente è Mao il padre».
La riflessione sull’immagine del grande leader comunista apre idealmente la sua ricerca sui volti dei leader mondiali, sulla loro immagine e sul loro carisma, tra cronaca e fascinazione, che ha portato il pittore a dipingere la sua serie potenzialmente infinita dei Game of Power, ritratti del potere, che include capi di Stato, sovrani, dittatori, capi religiosi.
Per Yan Pei-Ming la pittura può essere un atto politico, come dimostrano i due ritratti, in mostra contrapposti, di Putin (p. 67) e Zelensky entrambi ispirati alle copertine, una del 2007 e l’altra del 2022, che la rivista «Time» dedica ogni anno a un personaggio che si sia particolarmente distinto a livello globale. Questa giustapposizione evoca l’onnipresenza della guerra nella storia umana e trova un macabro riscontro nel grande acquarello con un “campo di crani rossi”, una catasta di teschi immersa nel sangue che sembra grondare dalla tela.
«Non intendo praticare la nostalgia per la pittura antica: è solo un punto di appoggio per una rilettura. Si tratta di comprendere la potenza di Caravaggio e di precipitare immediatamente nella storia contemporanea».
Questo interesse di Yan Pei-Ming per la rappresentazione del potere sfocia anche nella citazione della pittura del passato, come testimoniano in mostra le sue riletture dell’Innocenzo X di Velázquez – ritratto che Francis Bacon non riusciva a guardare negli occhi –, dell’imperiosa auto-incoronazione di Napoleone Bonaparte, ispirata a un disegno preparatorio di Jacques Louis David per il grande Le Sacre de Napoléon, o del retorico quadro di propaganda hitleriana di Hubert Lanzinger.
Colpito dalla violenza intrinseca che si manifesta nella storia, Yan Pei-Ming riflette su soggetti drammatici, come la fucilazione dei rivoluzionari spagnoli da parte delle truppe napoleoniche rappresentate da Goya come automi senza volto, e l’assassinio del giacobino Marat, scena del crimine attentamente studiata da David per creare un martire della rivoluzione.
«Non sono un pittore romantico. Sono un pittore del nostro tempo».
Come i quadri dei grandi maestri della pittura fin qui citati hanno fatto da base di partenza per una rilettura di alcuni temi o fatti storici appartenenti a momenti passati, alcune più recenti fotografie di cronaca hanno portato il pittore a rappresentare in una terribile trilogia di dipinti alcune delle vicende italiane più drammatiche dell’ultimo secolo: il corpo di Benito Mussolini, giustiziato e appeso a testa in giù a Milano a Piazzale Loreto, il cadavere di Pier Paolo Pasolini trovato all’idroscalo di Ostia e quello di Aldo Moro fatto rinvenire dalle Brigate Rosse a Roma in via Caetani.
«La storia ha un ruolo fondamentale nel mio lavoro, anche perché è governata dal conflitto tra la vita e la morte, vale a dire l’idea della fine della condizione umana. Penso sia proprio questa lotta perpetua a commuoverci».
Un trittico di uccisioni che hanno segnato nei decenni passati il susseguirsi della storia del nostro Paese e che dialogano in modo allusivo con una Crocifissione – tratta dal film Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini – e con un paesaggio “sombre” che sembra dipinto col catrame e nella cui profonda notte echeggia l’abbaiare feroce di un cane dalle fauci spalancate.

Arturo Galansino

Tratto dal catalogo della mostra Yan Pei-Ming. Pittore di storie, Marsilio Arte, Venezia 2023

BIO
Arturo Galansino (Nizza Monferrato, 1976) dal 2015 è il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi a Firenze. In precedenza ha maturato una serie di importanti esperienze curatoriali al Musée du Louvre di Parigi, alla National Gallery e alla Royal Academy of Arts di Londra.

INFO
Yan Pei-Ming. Pittore di storie
fino al 3 settembre 2023
PALAZZO STROZZI
Piazza Strozzi, Firenze
www.palazzostrozzi.org

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