Il suo significato affonda nella storia: l’icona è protagonista della mostra allestita a Punta della Dogana, che riunisce alcune opere chiave della Pinault Collection e invita a riflettere sul valore dell’immagine nell’epoca contemporanea. Da Agnes Martin a Kimsooja, da Rudolf Stingel, a Sherrie Levine
Icone. I propositi dell’invisibile
Che sfida parlare di icone oggi, rendendo omaggio all’energia immateriale rivolta allo sguardo e diffusa dalla materia e dai materiali rivolti alla visione! In un mondo
che oscilla tra l’ebbrezza e la denuncia di fronte all’abbondanza di produzioni visive e all’inflazione commerciale del «tutto visibile», una mostra che riprende il termine di icona mira chiaramente a restituire il suo potere e i suoi diritti all’invisibile nel cuore del sensibile. È vero che il termine di icona è universalmente banalizzato dalle tecnologie della comunicazione visiva e dai nuovi simboli utilizzati sugli schermi. I nostri telefoni si riempiono di faccine che sostituiscono concetti ed emozioni. L’icona diventa la lingua dei simboli e degli emblemi della comunicazione globalizzata, una sorta di esperanto visivo. L’apparente paganesimo di questo uso è fuorviante perché si tratta effettivamente di immagini offerte al culto e all’adorazione. Ma l’icona è il contrario dell’idolo, dà vita all’invisibile, mentre l’idolo condanna il visibile a morte. Le star Marilyn Monroe o Liz Taylor erano icone per Andy Warhol che ha moltiplicato il loro volto iconico. Ma la morte di Marilyn fu programmata dai consumatori carnivori dell’idolo. Tuttavia Warhol, di nascita ed educazione ortodossa, fu nutrito di quest’arte a cui dobbiamo la grande tradizione delle icone. Icona è un termine greco. Appartiene alla filosofia prima di essere sequestrato e quasi confiscato dalla teologia cristiana. L’icona in greco si chiama eikón e questo nome deriva da un verbo (éoika) che significa sia sembrare sia assomigliare. Il modo migliore per tradurre il termine eikón, e quindi icona, in francese è il termine semblant (in italiano parvenza), che non va confuso con il termine latino imago, cioè immagine mimetica. Bisogna affrontare questa esposizione come un viaggio nel paese dell’«apparentemente», quello del possibile e della libertà.
Ecco perché una mostra che si annuncia sotto il segno dell’icona ci porta a mettere lo sguardo al lavoro, a un lavoro di decifrazione dell’invisibile nel visibile. Per capirlo non è inutile collocare questa esposizione sotto il segno della cultura bizantina. Venezia non fu la sorella occidentale di Costantinopoli? L’icona era la figurazione di ciò che doveva radicalmente rimanere infinito, poiché si trattava di rendere visibile la divinità senza intaccare l’invisibilità della sua trascendenza. Questo è il paradosso di ogni processo creativo. L’icona non è un fantasma, non è né un’allucinazione né un’illusione ottica. Così il riferimento fondante che sottende l’insieme della mostra e che accompagna le scelte che sono state fatte, è l’opera di Andrej Tarkovskij che filmò la traiettoria passionale di coloro che sono irriducibilmente fedeli all’invisibile, sia che si tratti del monaco iconografo Andrej Rublëv, di uno stalker esploratore vagabondo della Zona, o di un astronauta che si interroga sull’origine dell’universo. È in Stalker che la traiettoria, al tempo stesso errante e desiderosa, conduce tre viaggiatori nel cuore dell’enigma della Zona, dove la grazia si rivela nel tenero e potente gocciolio della pioggia. La questione dell’icona si trova sulla soglia di un’area la cui apparizione quasi spettrale non ha nulla di irreale. E su questo bordo impercettibile, che esplora la luce molto più degli oggetti che illumina, gli artisti si mettono e ci mettono alla prova con l’invisibile e la sua potente vitalità. Incarnare non significa impersonare un corpo, ma diventare un’icona. Attraverso uno spostamento continuo, lo spettatore deve fare un salto fuori dal suo spazio conosciuto, entrare nell’area di un’estraneità essenziale, in un paesaggio fatto di luce, e ascoltare il canto di luoghi inesplorati. Allora l’esperienza visuale non è più prettamente legata all’organo della vista ma diventa la sfida della creatività di ciascuno. Dobbiamo entrare in questa mostra aprendoci il più liberamente possibile per accogliere la grazia di alcuni gesti creativi e la turbolenta libertà delle opere esposte nella loro notevole varietà. I sentieri dell’invisibile sono innumerevoli e a volte persino contraddittori, a seconda che si opti per una lezione delle tenebre o per la grazia della luce, e più spesso per la loro intermittenza e vicinanza.
Marie-José Mondzain
Testo tratto dal catalogo della mostra Icônes, Marsilio Arte, Venezia 2023
INFO
Icônes
fino al 26 novembre 2023
PUNTA DELLA DOGANA
Dorsoduro 2, Venezia
www.pinaultcollection.com/palazzograssi/it
Foto cover: Dineo Seshee Bopape, Mothabeng, 2022, Courtesy of the artist, Pirelli HangarBicocca and Sfeir-Semler Gallery Beirut · Hamburg. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Foto Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection
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