Cartoline

da MArte

Otto stazioni italiane si raccontano. Con fotografie e parole di autori straordinari

di Autori vari

Luoghi di passaggio ma anche della memoria, le stazioni ferroviarie sono ricche di storie da raccontare. A farlo sono i più grandi scrittori italiani riuniti nel catalogo della mostra all’Auditorium Parco della Musica di Roma

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TRIESTE – MAURO COVACICH – LIBERA

Erano lunghe le serate alla stazione. Presto, dopo gli ultimi locali che riportavano a casa i pendolari per l’ora di cena, non succedeva niente fino all’espresso che saliva da Roma verso le undici, mezzanotte, con la gente elegante, i signori della prima classe che chiamavano i facchini. In mezzo c’era un intervallo, eterno nel ricordo di mia madre, che ingannava il tempo giocando alla casa, magari spolverando la panchina con un fazzoletto mentre i genitori osservavano i binari vuoti scambiandosi poche, pochissime parole. Quella stazione, che era stata l’avamposto più meridionale dell’impero austroungarico e poi la testa di ponte fascistissima del Regno d’Italia verso le steppe dei maledetti slavi (cioè, verso l’altro mio nonno, ma ancora nessuno lo sapeva) e ora fungeva da nodo ferroviario di un lembo d’Europa liberato e occupato a macchia di leopardo un po’ da Tito e un po’ dagli americani, era un concentrato della storia del Novecento in cui tutti passavano ignari – e come avrebbero potuto fare diversamente? –, compresi i miei nonni che si sedevano per un po’ lì, sempre sulla stessa panchina, forse per distrarsi, forse per pensare meglio alla direzione su cui mettere il loro futuro.

VENEZIA – TIZIANO SCARPA – VENEZIA SANTA LUCIA

Devo ammettere che non ho mai amato molto la stazione di Venezia. Penso che sia una delle più brutte fra le stazioni ferroviarie italiane. Ci è andata decisamente male, rispetto a Firenze o Milano. Ed è una delle peggiori anche del sottoinsieme architettonico delle stazioni fasciste […] La stazione attuale si chiama Venezia Santa Lucia perché ha sostituito la chiesa e il convento che sorgevano lì (le spoglie della santa siracusana sono conservate poco distanti, nella chiesa di San Geremia), e anche questo è un simbolo del modo in cui la modernità ha inoculato se stessa in città, sostituendo una religione con un’altra, le colonne e gli archi di pietra con il cemento e l’acciaio. Viaggiatori, passeggeri in partenza e in arrivo, qual è il rito che officiate di corsa, entrando e uscendo dal tempio ferroviario di Santa Lucia? Che religione professate? Qual è il vostro dio?

MILANO CENTRALE – GAIA MANZINI – UN GIORNO ALLA STAZIONE CENTRALE

L’anonimato che regala una stazione è libertà, accelerazione di cambiamenti e mutazioni. Un giorno di dicembre del 2009, un uomo con in mano una valigia mi aiutava a portare la mia su per la scalinata della stazione. «Perché non prende le scale mobili?» mi aveva chiesto, ma io non avevo saputo rispondere. Forse volevo solo dare solennità a quel viaggio. Ero incinta di mia figlia e inseguivo il mio sogno d’amore. Andavo a Roma per rimanerci dieci anni. Non avrei più avuto lo stesso lavoro di prima, avrei conosciuto nuove persone, sarei diventata una persona nuova io stessa. Seguivo il movimento della vita senza pormi troppe domande. Mi muovevo come tutte le persone intorno a me, come mio nonno, Bianciardi, Testori; come gli sconosciuti che andavano e venivano dalla Centrale. Uscivo da una vita e entravo in un’altra che era pur sempre la mia.

Immagine tratta dal catalogo della mostra La memoria delle stazioni, Marsilio Arte, Venezia 2022

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BOLOGNA CENTRALE – ENRICO BRIZZI – IL FISCHIETTO DEL CAPOTRENO

Il tempo vola, e sono parecchi anni che mio padre non porta più il berretto rosso da capotreno, né io l’ho ereditato. La vita ha disposto per me altri piani, ma la stazione di Bologna Centrale, così diversa da com’era un tempo, con le scale mobili che scendono al piano Kiss & Ride e, da quello, ai binari sotterranei dell’alta velocità, continua a essere la porta che Bologna tiene aperta sul mondo. Il transito di settecento convogli al giorno e il passaggio quotidiano di centosessantamila persone la rendono a suo modo una città nella città, la capitale d’una repubblica di nomadi moderni della quale detengo a pieno titolo la cittadinanza. Non passa settimana senza che dal piazzale Medaglie d’oro m’infili a passo svelto sotto il colonnato del corpo principale, o che sbuchi in superficie per ingannare l’attesa d’una coincidenza ascoltando l’accento della mia gente mescolato a cento altri. La vita scorre sempre nella stessa direzione, verso l’avvenire, ma basta uno sguardo all’orologio fermo sulle 10 e 25 perché il nastro del tempo si riavvolga su se stesso. Sono trascorsi più di quarant’anni dal mattino in cui immaginai Babbo intento a risalire la voragine che aveva spezzato l’Italia a metà. Per quanto suoni pazzesco, ancora non conosciamo per filo e per segno i nomi dei colpevoli di quel disastro, ma una cosa è certa: Bologna non dimentica, e solo il giorno in cui saranno scritti sui libri di Storia troverà la sua pace.

FIRENZE – SANDRO VERONESI – FIRENZE SANTA MARIA NOVELLA

Il 16 marzo 1978 era un giovedì. Verso le dieci di mattina sono sceso dal treno locale che da Prato mi portava ogni giorno a Firenze per seguire le lezioni all’Università, dove ero iscritto al primo anno del corso di Architettura. Quella mattina la famosa lezione del giovedì di Geometria descrittiva del professor Ugo Saccardi, che si teneva dalle otto e mezza alle dieci e mezza nella sede di piazza Brunelleschi, era stata annullata: non fosse stato così sarei sceso dal treno due ore prima, come tutte le altre mattine, e chissà da dove avrei cominciato questo testo: ma era stata annullata, io sono sceso dal treno verso le dieci, e questo testo inizia da qui. […] Dunque quella mattina, durante il tragitto da Prato a Firenze, io lessi un po’ di pagine di Opinioni di un clown, e sempre per la ragione spiegata all’inizio ricordo bene anche quali pagine: quelle struggentissime alla fine dell’ottavo capitolo quando Maria abbandona Hans nella camera d’albergo di Hannover lasciandogli un biglietto sul tavolo con su scritto «Seguo la strada che devo seguire». Avevo dunque in testa queste parole quando sono sceso dal mio treno sul marciapiede della stazione di Santa Maria Novella, e i miei ricordi di quel luogo hanno trovato il loro inizio: un brusio, un passaparola, un sottofondo elettrico di altre parole vaganti, ripetute, esplicite e terribili: «Moro», «Brigate Rosse», «scorta», «strage»… Nel ricordo quelle parole vibrano su ogni bocca ma anche nel cemento dei pilastri, nel rame e nel vetro dei lucernari, nel ferro delle pensiline e nei marmi della galleria – sono diventate consustanziali alla stazione stessa. Quell’evento impressionante (impressionante soprattutto per un diciannovenne che di momenti storici non ne aveva ancora mai vissuti) si è agganciato a quel luogo e vi è rimasto per sempre, come se l’azione terroristica fosse stata compiuta lì, sotto i miei occhi.

ROMA TERMINI – MELANIA G. MAZZUCCO – LA BEFANA DEL FERROVIERE

Risaliamo il binario in silenzio, attraversiamo l’atrio, facendoci largo nella folla dei viaggiatori. La Stazione Termini brulica: solo qui, ogni volta che ci passo, mi rendo conto che Roma è una metropoli. Mio padre ha parcheggiato la 500 nei pressi di Santa Bibiana, quindi usciamo dalla stazione in un territorio incognito (arriviamo sempre sul piazzale). Non mi piacciono le strade intorno alla stazione, popolate di un’umanità furtiva e minacciosa. Non mi piacciono i palazzoni alti e monotoni come penitenziari, le strade dritte, che ostruiscono la luce. Cammino accanto a mio padre, intimorita, stringendo il pacchetto della macchina fotografica. L’ho rimessa nella scatola. Non scatterò altre foto, quel giorno. Scoprirò solo molti anni dopo che per la Befana del ferroviere – l’unica cui mi porterà, perché non ci torneremo più: sette mesi dopo Roberto Mazzucco lascerà l’impiego e vivrà solo di scrittura – ha voluto ripetere con me la passeggiata che faceva da bambino, quando aveva la mia età.

NAPOLI – VALERIA PARRELLA – NAPOLI CENTRALE

La memoria delle stazioni pare essere un ossimoro, tanto che le stazioni sono per noi i luoghi dell’impermanenza, del passaggio rapido. Ci si chiede invece che memoria abbiano, se tutti quei baci scambiati, quegli ultimi saluti ma pure quegli arrivi frettolosi all’alba di Napoli per andare verso nord si fermino dentro qualcosa, se sappiano trovare uno spazio fisico che non sia solo il singolo ricordo, e si facciano appunto memoria. Oppure bisogna chiedersi se la memoria non sia un fatto sì personale, dunque privato, ma che quando esso sia reiterato in tanti e tanti individui non si sostanzi proprio lì. E direi che è questo il caso delle stazioni, della stazione di Napoli. Credo sia questo il caso perché c’è una cosa che da quando esiste il treno, e da quando esiste la stazione di piazza Garibaldi, è il segno per chi va via e per chi arriva, c’è una cosa che nessun viaggiatore può evitare, sfocare od omettere, che nessun intervento urbanistico può cancellare e che va ben oltre le trasformazioni che centocinquanta anni di storia del treno possono apportare alla stazione di Napoli. E cioè: si vede il Vesuvio. Esso si staglia con decisione nel cielo azzurro: è viola, il Vesuvio è viola di lava rappresa e di tempo, è una montagna viola dal profilo inconfondibile e quando arrivi a Napoli lo vedi come prima cosa, è la porta della stazione, è il semaforo dell’arrivo, per entrare nella stazione di Napoli a un certo punto, a sinistra, compare lui, il Vesuvio sterminatore.

Immagine tratta dal catalogo della mostra La memoria delle stazioni, Marsilio Arte, Venezia 2022

MESSINA CENTRALE – NADIA TERRANOVA – DUE BAMBINI

Non ci saranno motivi per portare mia figlia alla stazione di Messina. Se vorrò portarcela, me ne dovrò inventare uno. Quando arriveremo insieme in nave nella città dove sono nata, e di cui spero segretamente lei porti traccia, allora dovrò scegliere a caso una ragione per andarci assieme. Non sarà un episodio memorabile, perché la stazione di Messina non è un posto memorabile. Non sarà scenografico, perché lì non c’è più nulla di teatrale. Si mescolerà a ricordi inquinati, bugiardi, storpiati da una nostalgia sorda e stupida, la nostalgia di quando eravamo troppo piccoli per guidare e prendevamo il treno che in Sicilia non funziona mai, raddoppiando il tempo per raggiungere posti vicini ed evitando le autostrade, come quella per Catania con i suoi oleandri fucsia. In macchina, di quei fiori ho sempre immaginato l’odore, mi piace molto l’odore dei fiori di oleandro, però nei treni regionali non si sentiva nient’altro che la puzza di gabinetti dalle porte che si aprivano traballando e si chiudevano male, mai del tutto. La Sicilia intera è come una grande città mal collegata, in cui per fare tutto bisogna prendere la macchina e per essere felici serve tantissima immaginazione. Perciò, più che ripercorrere vecchie strade, posso inventare per mia figlia una storia, un racconto, scegliendolo tra ciò che non è ancora accaduto e sistemandolo nello spazio cosmico degli avvenimenti impossibili.

Testi tratti dal catalogo della mostra La memoria delle stazioni, Marsilio Arte, Venezia 2022

INFO
La memoria delle stazioni
fino al 1° novembre 2022
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA
Viale Pietro de Coubertin 30, Roma
www.auditorium.com

Foto cover: Anna Di Prospero, Stazione di Messina, 2022

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